La vecchia porta in legno si aprì scricchiolando rumorosamente. La luce del corridoio sporcava appena la penombra della stanza mentre la mano di Michael cercava l’interruttore sul muro scorrendo con le dita lungo la ruvida carta da parati. I suoi occhi si socchiusero mentre il grosso lampadario illuminava il suo riparo per la notte, poi, con un grosso sospiro, entrò.
Il paesaggio oltre lo sporco vetro del finestrino cominciava a essere sempre più familiare. Sadie Warren aveva la fronte schiacciata su di esso e il frastuono quasi cardiaco del treno l’aveva ipnotizzata e accompagnata in un groviglio di ricordi e pensieri.
Un debole raggio di sole filtrò dalla struttura in metallo grigio della stazione e accecò Michael proprio mentre scendeva i gradini del vagone, facendolo quasi inciampare. Appena posati i piedi sul binario si fermò, a qualche passo dal flusso incontrollabile di persone che continuavano a sciamare fuori dalle porte del treno con passo svelto e volto serio.
Catherine Scout era sempre l’ultima a lasciare l’edificio: aveva il compito di controllare se, a fine giornata, tutti i computer degli impiegati fossero stati utilizzati correttamente e se il programma di controllo dati avesse riscontrato qualche anomalia. In quest’ultimo caso avrebbe dovuto risolvere l’inconveniente prima di poter mettere in stand-by l’intero centro operativo.
“Maledizione!” esordì Michael mentre gli occhi si posavano sfocati sulla sveglia lampeggiante di fianco a lui. Erano le sei e un quarto e avrebbe dovuto già essere sveglio da mezz’ora: il treno sarebbe partito di lì a diciotto minuti e c’erano dieci minuti fino alla stazione. Cinque se avesse corso. E sapeva già che avrebbe dovuto correre. Si precipitò fuori dal letto e corse ad accendere la macchina del caffè, con tutti i vestiti in mano. Mentre l’apparecchio rumoreggiava sputando caffè bollente a intermittenza, lui si vestiva di fretta sul divano, ringraziando se stesso per aver scelto la sera prima gli abiti da indossare.
Quando gli occhi di Kamille si aprirono, le sembrò di essersi appena svegliata nel letto di casa sua, con la mente che scorreva le cose che avrebbe dovuto fare insieme a Mak per prepararsi per il viaggio sulla Marianne. Il cielo sopra di lei era azzurro come mai prima e la sfocatura nei contorni della visuale andava scemando. Come un treno in corsa, il ricordo degli istanti prima la investì e con un gesto spontaneo tentò di mettersi a sedere; un dolore lancinante alla schiena le fece stringere i denti e la rigettò indietro. Ora Kamille stava rivivendo le scene a bordo della Marianne e gli occhi si fissarono vacui sull’incapacità di realizzare l’accaduto.
Il plotone Nord segnalò il via libera con il fumogeno verde, sebbene l’assenza di esplosioni e urla nei dieci minuti precedenti non avesse fatto preoccupare il plotone Ovest che ora, dopo il bengala colorato, si sarebbe apprestato a stringere verso il costone della montagna per raggiungere i compagni. Visibile nel cielo, parzialmente coperto dai rami e da qualche sbuffo di vapore, il dirigibile direttivo del comandante Thelir illuminava, con il grosso faro, il punto d’incontro.
I gomiti appoggiati sul freddo metallo della ringhiera cominciavano a patire il peso del professor Carrier e lo costrinsero a distogliere lo sguardo dai pesci annoiati che si trascinavano lenti vicino ai pilastri del ponte. Tirò giù le maniche della camicia fino al polso e riabbottonò i polsini; si era scordato l’orologio quella mattina, nella fretta di riuscire a non perdere un secondo dell’ultimo giorno di lezione prima del weekend.
«Kamille, avevi mai visto niente del genere?” disse Mak dopo quasi mezz’ora dall’inizio del viaggio. La ragazza tolse lo sguardo dal finestrino e si voltò sorridendo per rispondere ma non riuscì a dire nulla. Entrambi tornarono a guardare oltre il vetro. L’Airship Marianne II stava sorvolando a velocità moderata le campagne settentrionali e il forte rumore delle eliche posteriori pareva non turbare nessuno a bordo, sebbene l’assistente di volo fosse costretta a sporgere l’orecchio e chiedere chiarimenti più volte quando un passeggero le domandava qualcosa.
Salisburgo, 1541 Sotterranei della Fortezza Hohensalzburg
«Cominciavo a chiedermi se le mie indicazioni non fossero state troppo sintetiche…» iniziò la voce nel buio della cripta, accompagnando il cigolio della porta in legno malconcia. Due sagome presero forma sull’uscio illuminato solo da due grossi e deboli ceri ai lati della stanza. «Il nauseante odore della tua colonia impregnava tutto il cunicolo: era impossibile perdersi.» disse una delle figure appena entrate, con un accento palesemente straniero. Al fondo della fredda cripta in pietra, una sedia in legno strisciò sul pavimento ghiaioso e l’ombra di un uomo si schiariva alle tenue fiammelle delle candele: il volto si colorò di un rosa pallido, le folte ciglia aggrottate erano sospese su occhi vitrei e seri, lontani dal piccolo naso rosso e dalla bianca bocca contratta in una smorfia.